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L’Iran e la bomba

Ultimamente ho ridato un po’ fiato ad una delle mie passioni di sempre, la geopolitica.
Mi sono messo un po’ a leggicchiare qua e la (soprattutto su Limes) sulla situazione in medio oriente e ho provato a fare il punto della situazione.


Per chi fosse interessato provo a riassumere il tutto in questo post.

Intanto un punto fermo. Il 2012 è l’anno cruciale per la crisi legata al tentativo da parte dell’Iran di dotarsi di armi nucleari.
Questo perchè nel 2011 è avvenuto un cambio al vertice dell’IAEA (l’agenzia dell’ONU deputata al controllo della proliferazione nucleare). All’egiziano Al Baradei è succeduto il giapponese Amano. E rapidamente la posizione dell’agenzia è cambiata dalla totale incertezza sul risultato delle proprie ispezioni, ad una posizione chiara e limpida.

Lo scarno rapporto stilato a Settembre si trasforma in Novembre in più corposo documento, corredato da una dettagliata appendice. I punti chiave sono contenuti nel paragrafo 43, dove si afferma chiaramente che l’Iran ha svolto una serie di attività per sviluppare ordigni nucleari:

  • iniziative per procurarsi attrezzature e materiali nucleari o comunque utilizzabili per scopi sia civili che militari (dual-use);
  • sforzi per creare un sistema clandestino per la produzione di materiali nucleari;
  • acquisizione, da una rete clandestina, di documentazione relativa alla progettazione di armi nucleari;
  • sviluppo di un progetto volto alla fabbricazione di un’arma nucleare, comprensivo di test dei componenti.

Insomma si certifica nero su bianco come le dichiarazioni iraniane di perseguire un nucleare prettamente civile siano smentite nei fatti dall’attività clandestina messa in atto dai servizi segreti della Repubblica Islamica.
Ovviamente ciò che solo a fine 2011 diviene palese per l’ONU, lo è dal 2005 per Israele e Stati Uniti.
Anche se i due alleati hanno differenti punti di vista sull’argomento.

  • L’America non vuole che l’Iran si doti di armi nucleari.
  • Israele non vuole che l’Iran sia in grado di fabbricare ordigni nucleari, a prescindere dal fatto che li costruisca o meno.

Una differenza che può sembrare sottile ma che può portare a linee di azione ben diverse: dalla strategia del contenimento all’uso della forza.

La strategia del contenimento è quella già sfruttata vittoriosamente durante la Guerra Fredda per piegare l’Unione Sovietica. Non potendo impedire che l’URSS si dotasse di uno sterminato arsenale nucleare, la si è piegata sul piano economico sfittando la maggior capacità delle democrazie di garantire una ricchezza ed un benessere diffuso ai propri concittadini e bloccando con la deterrenza nucleare qualunque follia della dirigenza avversaria. Se l’Iran attaccasse Isarele scatenerebbe una guerra termonucleare che sicuramente lo spazzerebbe via.

Dato che il regime vuole prima di tutto, se non esclusivamente, sopravvivere ecco che con questa strategia gli USA avrebbero anche il vantaggio di avere la giustificazione per mantenere un solido presidio militare nel Medio Oriente anche dopo il ritiro dall’Afghanistan. Senza contare che vista l’ostilità tra l’Iran e gli altri paesi del Golfo Persico, la militarizzazione del settore rinsalderebbe ancor di più i rapporti statunitensi con Arabia Saudita, Qatar ed Emirati Arabi Uniti. Certo questa è una visione semplicistica, visto che sicuramente a lungo termine anche questi paesi vorrebbero possedere un proprio arsenale nucleare per emanciparsi dalla protezione straniera e così contenere da soli le mire espansionistiche dell’Iran.
Israele dal canto suo non sembra disposto ad accettare questo scenario. Ufficiosamente detentore di almeno un centinaio di ordigni nucleari, ha finora bloccato con la forza qualunque velleità nucleare dei suoi nemici, grazie a raid aerei effettuati contro l’Iraq e la Siria. In entrambi i casi la distruzione dei siti deputati all’arricchimento dell’uranio ha bloccato definitivamente i piani di sviluppo nucleare di queste nazioni. L’Iran, facendo tesoro di questi precedenti ha delocalizzato in più località tali siti, spesso costruendo i più importanti (Fordow ne è un esempio) nel sottosuolo per aumentarne la protezione da raid aerei.
Sono anni ormai che Israele ha scatenato una guerra asimmetrica contro l’Iran per neutralizzare il programma nucleare della Repubblica Islamica. Una guerra fatta di attentati mortali agli scienziati coinvolti nell’operazione e di guerra informatica. Quest’ultima è salita alla ribalta delle cronache grazie al più riuscito dei worm utilizzati: Stuxnet.

Stuxnet è la prima vera arma informatica venuta a conoscenza del grande pubblico. Immesso tramite una chiavetta USB da un agente doppiogiochista nel sito di Natanz ha fatto si che il programma di sviluppo di quel sito venisse ritardato di almeno un anno. Senza contare che anche il sito di Fordow ha subito ritardi nel suo avvio, dato che le autorità volevano essere sicure di aver debellato la minaccia di Stuxnet prima di avviarlo.

Ma l’uccisione di scienziati ed alti ufficiali iraniani e l’utilizzo di armi informatiche possono solo ritardare nel tempo lo sviluppo del piano nucleare iraniano, non fermarlo.

È per questo che Israele ha da un anno ultimato i preparativi per un attacco aereo contro l’Iran. Si prevede l’utilizzo di una forza di un centinaio di velivoli. Le conseguenze però sono incerte. È incerta sia l’efficacia di un attacco sostenuto solo da Israele vista la delocalizzazione delle strutture iraniane e la loro fortificazione. Sia la reazione militare dell’Iran e dei suoi alleati in Libano e nella Striscia di Gaza.
È anche per questo che Israele tenta di coinvolgere nella sua strategia difensiva gli Stati Uniti. L’apporto militare statunitense sarebbe fondamentale per la distruzione del potenziale nucleare iraniano. E se lo strike avvenisse a ridosso del collasso del regime siriano anche le possibilità di ritorsione dal Libano e da Gaza sarebbero estremamente limitate.

Il primo ministro Netanyahu ha più volte paragonato la realtà di oggi con quella dell’Europa alla vigilia della Seconda Guerra Mondiale, sostenendo che fu proprio la politica di pacificazione e di moderazione perseguita dall’Occidente nei confronti di Hitler ad incoraggiarne le avventure. Il regime iraniano, secondo Netanyahu, si sta comportando come quello nazista: sta sfruttando fino a fondo e in modo sofisticato la paura di un conflitto, diffusa nel mondo; interpreta la politica di pace come debolezza delle potenze che la esprimono: prolunga i tempi di colloqui e trattative per sfinire le controparti internazionali conseguendo nel frattempo risultati che difficilmente saranno reversibili. Se si permetterà all’Iran di produrre l’arma nucleare, non sarà più possibile ostacolarlo nei suoi futuri programmi. Di qui l’alternativa: agire oggi in condizioni difficili o trovarsi domani in una condizione di gran lunga più grave.
Al momento la situazione è molto fluida. Obama sta puntando tutto sulle nuove sanzioni economiche che boicottano la Banca Centrale Iraniana senza impedire il commercio del greggio. Strangolando finanziariamente il regime si impedisce a quest’ultimo il perdurare della repressione interna e si spinge l’Iran verso un colpo di stato. Ed un’atomica nelle mani di un governo che non abbia come obiettivo la distruzione di Israele non farebbe più paura. Anche perchè un attacco militare rinsalderebbe la popolazione al regime in un sussulto patriottico.
Nonostante questo l’amministrazione americana ha stabilito dei punti di non ritorno, varcati i quali si passerebbe all’opzione militare.
I punti di non ritorno americani sono fondamentalmente tre. Espulsione degli ispettori dell’Aiea che monitorano l’attività delle centrali atomiche. Il livello di arricchimento dell’uranio: se raggiungesse il 90% vorrebbe dire che l’Iran è ad un passo dalla Bomba. Installazione di centrifughe avanzate nella struttura di Fordow, costruita sottoterra e quindi impossibile da sorvegliare dall’alto o dallo spazio.
A complicare il tutto ci sono però la paura si Israele, dove Netanyahu ancora non è riuscito a trovare la maggioranza nel gabinetto di guerra per scatenare l’attacco – principalmente a causa dell’opposizione di forze armate e servizi segreti non sicuri della riuscita dello strike. E la corsa alla Casa Bianca, con i Repubblicani schierati pro attacco. Obama non può dimostrarsi debole, nè potrebbe negare l’appoggio ad Israele se questo decidesse di attaccare anche contro la volontà statunitense. E nel passato – vedi la Guerra dei Sei Giorni o gli strike contro i siti nucleari iracheni e siriani – Israele ha sempre agito senza il consenso americano.

Insomma lo scoppiare di una nuova Guerra del Golfo sembra appeso ad un complesso gioco di pesi e contrappesi. Le recenti prese di posizione iraniane, il taglio del greggio verso alcuni paesi europei, sembra significare che le nuove sanzioni stiano producendo la pressione desiderata sul regime. E l’attivismo della Cina che sta cercando nuovi accordi con gli altri paesi del golfo per il proprio approvvigionamento petrolifero è un chiaro segnale di allarme per Teheran.
Il vero problema per l’Occidente sono proprio gli approvvigionamenti petroliferi. A parte la propaganda l’Iran non potrebbe bloccare per più di due settimane lo Stretto di Hormuz. Ma lo schizzare alle stelle del prezzo del greggio bloccherebbe la timida ripresa economica.

Insomma la situazione è ingarbugliata e complicata. Anche se, a mio parere, tra non molto dovrà trovare una soluzione, pacifica o meno che sia.