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I detective selvaggi

Quando ho finito di leggere questo romanzo di Bolaño ho detto: bello. Poi ho considerato che spiegare a qualcuno perché l’ho trovato bello potrebbe non essere una cosa facile – vista sia la struttura che lo stile originali. E poi subito dopo ho pensato ancora: ma forse il bello di questo romanzo è proprio questo, quando una storia ti rimbomba in testa lasciandoti il desiderio di rileggerla e di approfondirla. Un po’ come Suttree di Cormac McCarthy.

Ma andiamo con ordine. Roberto Bolaño era uno scrittore cileno, nato a Santiago nel 1953. Abbandonò il Cile nel 1973 all’indomani del colpo di stato che portò alla dittatura di Augusto Pinochet. Visse dapprima in Messico e poi in Spagna, dove si stabilì definitivamente e dove morì, nella città di Barcellona nel 2003. Ho scoperto Bolaño con Notturno Cileno. Notturno Cileno era la sua ultima opera, quella dove il suo stile, uno stile di scrittura che qualcuno ha definito di disintermediazione creativa, arriva al suo livello massimo. Ne I detective selvaggi invece non siamo ad uno stadio così estremo. La storia è divisa in tre parti con una lunga sezione centrale di “interviste” in cui si seguono i personaggi principali, Ulises Lima (richiamo letterario per eccellenza) e Alberto Belano (alter-ego dell’autore), nel loro peregrinare. Una sezione che in fondo è un collage di racconti brevi, sebbene l’argomento verta sempre sui nostri protagonisti. Racconti a volte autoconclusivi, a volte sparpagliati e tesi a rincorrersi tra le pagine del libro.
Nella sua trama più essenziale il romanzo narra la nascita, nella Città del Messico degli anni 70, di un’avanguardia poetica nota con il nome di “realismo viscerale” o realvisceralismo (una corrente poetica che si oppone a quella di Octavio Paz) e della ricerca da parte dei due fondatori, Ulises Lima e Arturo Belano appunto, della misteriosa poetessa Cesárea Tinajero, considerata l’ispiratrice del movimento letterario. Ma la trama di per se è più una scusa per raccontare il fallimento di un apprendistato politico e poetico di tutta una generazione. Almeno questo è quello che emerge, visto che in alcune interviste Bolaño tentò di correggere il tiro su questa interpretazione, sostenendo che tutte le generazioni, per il semplice fatto di esistere, sono esposte al fallimento, che il romanzo quindi racconta di una lezione del XIX secolo che viene compresa solo guardandola dal XX secolo e che la lettura del suo romanzo non può esaurirsi in questo.

Per comprendere meglio un autore la cosa migliore è chiedere a chi lo conosceva e lo frequentava. Nulla di meglio quindi dell’articolo scritto da Enrique Villa-Matas in memoria del suo amico Roberto. Conobbe il nostro alla fine di quella che Villa-Matas stesso definisce la fase di clausura di Bolaño, o forse più che clausura la fase di anonimato, isolamento, segregazione.
Quella fase della sua vita in cui scriveva ma non pubblicava, in cui nessuno nel mondo letterario gli prestava la minima attenzione, in cui viveva una condizione di grande sconosciuto, condizione che non ha fatto che favorire la sua piena dedizione alla scrittura e che gli ha permesso di accumulare quella forza creativa che lo ha portato poi al successo in pochissimo tempo (considerate che La letteratura nazista in America è del 1996 e Notturno Cileno è del 2000 e che Bolaño è morto nel 2003).

Enrique Villa-Matas fa una bella descrizione di come questo isolamento abbia portato così tanti frutti.

Il caso del lungo isolamento di Bolaño a Blanes mi ricorda i libri di cui ci parla Elias Canetti ne La provincia dell’uomo, libri che teniamo lì per molti anni senza leggerli, libri dai quali non ci separiamo mai e che portiamo con noi da una città all’altra, da un paese all’altro, accuratamente impacchettati, malgrado lo spazio ridotto, e che magari sfogliamo solo al momento di disfare i bagagli; tuttavia, ci guardiamo bene dal leggere anche solo una frase completa. Poi, dopo parecchi anni, arriva un momento in cui, tutt’a un tratto, come spinti da un imperativo superiore, non possiamo fare altro che prendere uno di quei libri e leggerlo d’un fiato, da cima a fondo; quel libro è come una rivelazione. Proprio come quel libro, Bolaño probabilmente non avrebbe potuto dire così tante cose se non fosse rimasto muto per tutto quel tempo.

E tra le tante cose interessanti che Bolaño ha detto nel suo libro merita una nota l’idea stessa con cui ha deciso di entrare a far parte dell’industria editoriale, di entrarvi, si, ma senza accettarne del tutto le regole, flirtandovi e infrangendone qualche codice (il Belano che in questo romanzo si fa beffe degli autori presenti alla Fiera del Libro di Madrid ne è un esempio perfetto).