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La meritocrazia

Finalmente in questa nazione si cambia direzione e si tenta di evitare che, preda della vuota retorica, anche le nostre università diventino ignorantifici.
univ La notizia è che il 7% del Fondo di Finanziamento Ordinario per l’università è stato assegnato in base alla valutazione della qualità della ricerca e della didattica degli atenei.
Il Ministero ha stabilito dei criteri ed in base a questi ha redatto una classifica.

Fin’ora, merito delle idee sessantottine, il decadimento dell’università italiana sembrava irreversibile. Per esperienza personale posso commentare la situazione de La Sapienza, dove venivano assunti professori figli di professori, dove amici e sodali dei Rettori e dei Presidi venivano gratificati con cattedre per corsi frequentati o letteralmente da quattro gatti, o dalla massa perchè il voto minimo per la scena quasi muta in sede d’esame era ventotto.

Oltre ad essere tutto ciò uno scandalo, si rivelava anche essere uno sperperio di denaro pubblico, a detrimento della possibilità di migliorare la didattica o di assumere personale competente.

Ciò che ho visto tra La Sapienza e CNR – dove ho svolto tesi e tirocinio – era allucinante.

Rammento di una Professoressa di Fisica – figlia di un Professore di Fisica della stessa università – la cui preoccupazione principale era che Joule, nato francese ma vissuto in Inghilterra, andasse pronunciato alla francese jul anzichè all’inglese jaul. O del ricercatore del corso di recupero di chimica organica che descriveva atomo ed elettroni: stò cazzo e stè fregnette. O del bando di concorso per un posto al CNR disegnato sul curriculum del candidato predestinato ad esserne il vincitore, con addirittura esperienze in alcuni campi di due anni e mezzo, nè di più, nè di meno.

E’ ovvio che quando la massa si attiene a questi dettati, anche le mosche bianche che hanno capacità e meriti vengano soffocate ed oscurate.

Ma la retorica imperante nel periodo ’91-’99 – i miei anni da studente – era questa. Controllo politico e nepotistico della Sapienza per piazzare amici ed alleati.

Il problema italiano è il fraintendimento diffuso del diritto allo studio. E’ passata fin’ora l’idea che questo diritto sia slegato dal merito. Ci siamo cullati sul fatto che i nostri studi formassero professionisti versatili, capaci di risolvere problemi e trovare soluzioni ingegnose meglio dei laureati anglosassoni. Ci siamo talmente abituati a stendere il panegirico dei nostri laureati, che non ci siamo accorti che la massa sfornata dalle università non riesce ad accedere al mondo del lavoro perchè al di sotto delle richieste minime delle aziende. Che ce ne facciamo di 10 super professionisti se altri 100 restano disoccupati?

Io sono da sempre favorevole ad un modello anglosassone per le università. Dopo una scuola superiore che ti impartisce un metodo valido e ti apre gli orizzonti con discipline multiple, ben venga un’università dove solo i migliori possano progredire.

Forse la nostra nazione non è adatta al metodo americano dell’università privata e dei prestiti delle banche agli studenti poveri per pagare le rette. Ma ben venga un’università pubblica che deve lottare e garantire elevati standard qualitativi per avere fondi superiori al minimo garantito.

Corollario di questa trasformazione sarebbe l‘abolizione del titolo legale della laurea. Oggigiorno, almeno formalmente, l’importante è avere una laurea, non averla ottenuta in un’università seria od in una di dubbia qualità. Abolendo il titolo legale le università sarebbero costrette a fornire certi standard per attirare gli studenti.

Il risultato finale sarebbero meno laureati, certamente. Ma sarebbero professionisti in grado di accedere al mondo del lavoro senza essere sottopagati o sfruttati e senza essere costretti ad emigrare per lavorare.

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