Skip to content

2022

Uzbekistan

Nikon D750, Nikkor 24-70. iPhone 12 Pro

Mi rendo conto quanto i vari asiastan siano nazioni poco conosciute in Italia e che necessitino di un qualche preambolo per molti lettori. Ho deciso quindi di scrivere un corposo cappello introduttivo a questo diario di viaggio, per dare una panoramica della cultura e della storia dell’Uzbekistan. Alcune delle cose che vi racconterò le avevo apprese prima di partire – è da quando ho scoperto il podcast Cemento (link qui) che ho iniziato ad interessarmi dello spazio ex sovietico e del Nuovo Est. Altre le ho apprese durante il viaggio.

Una nota sull’organizzazione complessiva del viaggio. Anche questo viaggio l’ho effettuato con Avventure nel Mondo (link alla scheda qui). Sebbene viaggi da anni con loro, è la prima volta che sono costretto a sfruttare la cosiddetta formula soft. Singolarmente è l’unica formula disponibile per questa meta (anche quella giovanile, la discovery, comunque si allinea a questa modalità). La formula soft prevede che l’agenzia prenoti (nel caso specifico tramite un corrispondente locale) gli alberghi ed i ristoranti per le cene – tutti a menù fisso 😬 – le guide (spesso parlanti italiano) e gli ingressi ai musei, l’autobus e l’autista. Insomma ben poco è lasciato all’improvvisazione e all’estro del gruppo, ingabbiato in un programma che una volta stabilito dall’Italia non può essere più modificato, anche per la rigidità del referente locale. Insomma non proprio l’ideale per me (vi giuro che personalmente ho trovato odioso non poter scegliere nemmeno cosa ordinare a cena) ma tant’è 🤷🏻‍♂️ Ho immaginato che alla base della mancanza della formula classica di viaggio dell’agenzia ci potesse essere la volontà del governo locale di mantenere il controllo sull’ingente flusso turistico che ha portato gli italiani ad essere il comparto turistico più numeroso a visitare l’Uzbekistan.

L’Asia centrale è sempre stata protagonista nella storia delle civiltà euroasiatiche come luogo di incontro e di commerci. Era proprio lungo queste steppe infuocate che le carovane europee, cinesi ed indiane davano vita alla Via della Seta, quella rotta terrestre lungo la quale i beni di lusso venivano commerciati tra Oriente ed Occidente. Fino a che le rotte marittime non resero obsoleta questa rete di oasi e città fortificate, in queste terre sorsero imperi e regni che espressero con mirabili opere architettoniche il loro potere e la loro ricchezza.

L’Uzbekistan è il più popoloso dei cinque stati che occupano questa zona del mondo. Trenta milioni di abitanti in rapida crescita. Questo perché l’Uzbekistan possiede nei suoi territori la maggior parte della Valle di Fergana, una fertile valle irrigata dai due fiumi che discendeno dai ghiacciai del Pamir e che una volta davano vita al Lago d’Aral: l’Amu Darya ed il Syr Darya.

Ognuno ha la sua meta preferita in un viaggio. Chi Samarcanda, la vecchia capitale dell’impero di Tamerlano. Chi Bukhara, la città dei tappeti. La mia meta di questo viaggio era invece proprio il Lago d’Aral, ormai quasi completamente prosciugato dalla mano dell’uomo e trasformato in una landa arida e tossica, con i relitti delle navi che lo solcavano arenati ad arrugginire nel deserto. Ma non è stato possibile raggiungerlo, come non è stato possibile visitare Nukus, perché il nord del paese (la Repubblica Autonoma del Karakalpakistan) si è rivoltato contro il potere centrale che ne voleva ridurre l’autonomia. La tenuta di queste giovani nazioni, indipendenti dal 1991, è sempre precaria, basandosi su un mutevole equilibrio tra le oligarchie al potere e le tante nazionalità che le abitano.

Due sono le lingue – e le etnie – principali del paese. Il maggioritario uzbeko, una lingua turcofona. Ed il tagiko, una lingua imparentata col farsi persiano, parlata nel sud. A cui bisogna aggiungere la lingua franca di tutto lo spazio ex sovietico: il russo. Contate quindi che la traslitterazione dei nomi è sempre un dedalo, con tre o quattro versioni dello stesso nome e senza che nessuna di queste sia preminente.

Vi riassumo velocemente la storia dell’Uzbekistan. Tenetela a mente a mo’ di traccia, perché, man mano che il racconto del viaggio di dipanerà, quello che qui è accennato verrà ampliato parlando dei monumenti o grazie alle testimonianze delle nostre guide.

L’Uzbekistan storicamente è sempre stato un territorio ambito dagli imperi che hanno dominato l’Asia. Parte dell’Impero Achemenide, fu conquistato da Alessandro Magno (pensate che visiteremo addirittura i pochi resti di una delle fortezze dei greci), per poi far parte del regno partico e di quello sasanide. Verrà poi dominato da tribù turche prima e mongole poi, per vedere il suo fulgore con la nascita della figura di Tamerlano (Amir Timur) che stabilì a Samarcanda la capitale del suo impero. Dai domini timurudi sorsero poi i khanati di Khiva, Bukhara e Kokand. Spinto dalla rivalità con l’Impero Inglese in quello scontro passato alla storia come Il Grande Gioco (imperdibile l’omonimo libro di Hopkirk, ne parlai qui quando lo lessi), l’Impero Russo assoggettò man mano le realtà politiche dell’Asia centrale. L’espansione zarista si fermò solo di fronte all’Afghanistan, reso protettorato inglese con la Seconda Guerra Anglo-Afghana, resasi necessaria proprio per creare uno stato cuscinetto tra i domini diretti delle due potenze rivali: l’Asia centrale e l’India appunto.
Come meglio poi racconterò quando parlerò di Bukhara, il vuoto di potere seguito alla rivoluzione di ottobre spinse i khanati ad emanciparsi dal vassallaggio alla Russia. Furono poi i bolscevichi, vittoriosi contro gli eserciti bianchi, a conquistarli definitivamente e a far sorgere la Repubblica Sovietica di Uzbekistan. Repubblica che, con la dissoluzione dell’URSS, si rese indipendente sotto la guida del suo primo presidente, Islam Karimov. Già presidente della Repubblica Socialista, mantenne il controllo del paese fino alla sua morte nel 2016. Il paese è adesso governato dal secondo presidente, Shavkat Mirziyoyev.

6 Agosto

Del gruppo sono l’unico a partire da Roma. Volo con Turkish Airlines, ho uno scalo di poche ore a Istanbul e atterro a Tashkent, la capitale, a tarda notte. Il controllo passaporti è di una lentezza esasperante, ma anche il recupero bagagli richiede una buona dose di pazienza. I legami politici e commerciali tra gli uzbeki ed i turchi sono molto forti e si basano sull’appartenenza delle due lingue allo stesso ceppo. Con me sbarcano molti uzbeki che tornano dalla Turchia e che recuperano dai nastri quasi sempre una o più valigie veramente ingombranti. Scoprirò il giorno dopo dalla nostra guida che è abitudine di molti uzbeki sfruttare eventuali viaggi di piacere in Turchia per acquistare a basso costo capi d’abbigliamento per poi rivenderli in patria.

Dopo un quarto d’ora dal mio, atterra anche l’aereo che porta il resto del gruppo, partito da Milano, e raggiungiamo l’Hotel Orient Inn per riposare qualche ora. Il clima è un caldo secco, sicuramente più vivibile di quello afoso che avevamo lasciato in Italia. La sera le temperature scendono e si sta bene, anche se alla fine è quasi obbligatorio dormire con l’aria condizionata.

7 Agosto

Ci raggiunge in albergo la nostra guida per oggi, Akrom. Originario della valle di Fergana, vive da molti anni a Tashkent, dove era venuto da studente. Padre di tre figli, è una guida turistica esperta e parla un buon italiano. Con lui c’è anche il nostro autobus. Noi siamo sedici ed il mezzo può ospitare una quarantina di persone. Viaggeremo comodi ed è un bene, visto che le distanze tra le varie città non sono brevi e che potremmo passare anche intere giornate in spostamento.

La nostra prima meta è uno sportello di cambio. Euro o dollari sono di difficile utilizzo, salvo per le spese più importanti come i tappeti in seta di Bukhara o i capi di abbigliamento in astrakan. Il costo della vita per noi è molto basso e le valute occidentali non sarebbero spendibili nei mercati o nei negozi. Dobbiamo quindi cambiare la valuta nel locale Som. Dato che è domenica abbiamo meno possibilità di sfruttare le banche e Akrom ci accompagna ad un ufficio di cambio presso l’Hotel Uzbekistan (esiste anche un vantaggioso mercato nero, ma lo sfrutteremo durante il viaggio per piccole cifre onde non rimanere senza valuta locale).

L’Hotel Uzbekistan è un chiaro esempio di quello che viene definito il brutalismo architettonico sovietico. Ecco… potrei dedicarmi ad approfondite disamine sul diritto dei materiali da costruzione ad essere ammirati e persino celebrati… ma penso che basti mettervi qualche foto di quello che era l’albergo per i vip e gli occidentali ai tempi dell’URSS per darvi la giusta idea. Tranquilli comunque… l’ultimo giorno del viaggio, di nuovo a Tashkent avremo occasione di perderci tra le facciate di vari condomini dell’era sovietica. E lì il brutalismo vi colpirà con ben più energia di oggi 😬

Per cambiare le valute di tutto il gruppo ci vuole molto tempo e ne approfittiamo per porre le prime domande “piccanti” ad Akrom. Come vi avevo anticipato nel breve excursus storico, il tentativo di rinsaldare il potere centrale da parte del Presidente Mirziyoyev aveva portato a luglio ad una rivolta a Nukus. Nella costituzione del 1991 il nord del paese, la Repubblica Autonoma del Karakalpakistan, ha infatti la possibilità di indire un referendum e staccarsi dal resto del paese e Mirziyoyev voleva invece equiparare il territorio alle normali province uzbeke, per meglio governare il mix di etnie della nazione. Nelle immagini reperibili sul web si vedono gli scontri, poi repressi con morti e feriti, e la bandiera carapalpaca sventolare sulle folle (link qui). La bandiera è visibile dal 2006 anche sulla pagina wikipedia dedicata al Karakalpakistan (link qui).

Perché ve lo dico? Perché come si potrebbe facilmente immaginare in un paese non libero la diffusione delle notizie e delle proprie idee non è vista di buon occhio. Non volendo mettere in difficoltà i nostri interlocutori, abbiamo sempre tenuto per noi le notizie che avevamo raccolto prima di venire, come le opinioni che ci siamo man mano formate. Comunque sia… questo è stato a somme linee il racconto di Akrom.

Noi: Akrom, ma cos’è successo al nord?
Lui: Incredibile! È stata una cosa improvvisa ed inattesa! Pensate che un deputato aveva in un’intervista avanzato l’idea di discutere del cambio di status della regione. Non era stato presentato un atto formale in Parlamento, non era stato proposto di votare nulla. Solo un’intervista! Ed è scoppiato il panico. I dimostranti hanno sottratto le armi alle forze dell’ordine e li hanno minacciati con quelle. Ma il Presidente ha mandato delle truppe dal sud, dalla Valle di Fergana. I valligiani sono ragazzoni ben piantati, che hanno avuto buon gioco a riportare l’ordine perché i carapalpachi sono esili e magri. Ho sentito degli amici nel nord che mi hanno confermato che non si aspettavano tutto questo ed erano preoccupati perché mentre prima erano ignorati dal potere centrale adesso sicuramente avranno addosso l’attenzione delle autorità. Sicuramente – aggiunge Akrom – la cosa era stata preparata da tempo. Pensate, ci dice, che avevano anche una bandiera! E mica la puoi fare il giorno prima una bandiera! Era tutto programmato.
Noi: Ma chi ci potrebbe allora essere dietro alla rivolta?
Lui: Il nostro Presidente si è informato. La Russia ha detto che lei non c’entra nulla. La Cina ha detto che lei non c’entra nulla. L’Unione Europea ha detto che lei non c’entra nulla. Gli Stati Uniti hanno detto che loro non c’entrano nulla.
Noi: E allora?!?
Lui: Ha detto il Presidente che è stata una, ancora ignota, potenza straniera!!!

Ho tentato di riportarvi quel che mi ricordo di questa conversazione solo per darvi un’idea di come in un posto del mondo con una storia così diversa dalla nostra, anche i punti di vista possano essere molto differenti. Non possiamo sapere se Akrom ci abbia raccontato quello che una guida ci deve necessariamente raccontare, e quindi la versione ufficiale del governo. O se ci abbia riferito la narrazione dei media che ascolta ogni giorno. O se questo sia effettivamente il punto di vista che lui condivide. Noteremo comunque, man mano che il viaggio proseguirà, che il punto di vista delle persone sulle questioni che potremmo definire di geopolitica, quando esiste, è comunque sempre allineato a quello del governo.

Sempre perché avevo approfondito questa questione posso aggiungere che la presidenza Mirziyoyev esprime un governo meno autoritario di quello del suo predecessore, Karimov. Questi è sempre stato giudicato come un dittatore sanguinario. Sicuramente ora l’Uzbekistan è più libero e c’è maggior fermento politico-culturale rispetto ad allora.

Una volta che tutti finalmente hanno cambiato i loro dollari in Som siamo pronti per iniziare la nostra mezza giornata di visita di Tashkent. Akrom già in autobus ci aveva fatto notare come ci sia un grosso fermento edilizio in corso. Si stanno abbattendo i vecchi complessi di abitazioni sovietiche per sostituirli con fiammanti nuovi grattacieli.

Settant’anni di dominazione sovietica sono stati tanti ed hanno cambiato molto il paese. I khanati che prima occupavano il territorio condividevano una cultura islamica sunnita simile a quella oscurantista che noi occidentali associamo all’Afghanistan dei Talebani. Le donne erano o proprietà dei padri o dei mariti. Non potevano studiare e in pubblico giravano sotto un burka completo, di quelli che nascondono anche gli occhi con una retina. Sotto l’URSS le religioni vennero perseguitate, quella islamica sicuramente più della cristiana ortodossa: le moschee vennero chiuse, il corano bandito. Si doveva essere atei per lavorare e fare carriera. Le donne acquisirono i pieni diritti civili. Insomma l’Uzbekistan fu proiettato dal medioevo al ‘900, destinando alla repressione dei gulag le voci dissidenti. I sovietici crearono molte infrastrutture, strade e ferrovie, per meglio sfruttare le risorse minerarie. Ricostruirono Tashkent quando nel 1966 un violento terremoto la rase al suolo. Di contro annichilirono la storia e le tradizioni uzbeke, lasciano in stato di abbandono i monumenti timuridi e disincentivando lo studio della storia uzbeka.

Con l’indipendenza il Presidente Karimov decise di recuperare la storia nazionale restaurando i monumenti storici ormai sull’orlo del crollo e recuperando la figura di Amir Timur, il condottiero noto da noi col nome di Tamerlano. Tre statue furono erette in suo onore. Una in piedi nella sua città natale di Shahrisabz, una assiso in trono a Samarcanda, la capitale del suo impero. Ed una equestre nel centro del Parco Amir Timur, proprio di fronte l’Hotel Uzbekistan. Che farà da sfondo a qualsiasi foto voi vogliate fare alla statua 😬

Sulla piazza si affacciano anche la Torre dell’Orologio di Tashkent ed il Museo di Amir Timur (ci dice Akrom che ha senso visitarlo solo se non si andasse a visitare le tre città della Via della Seta. In caso contrario risulterebbe ridondante con quello che vedremmo meglio durante il tour).

Risaliamo sul bus e raggiungiamo il Complesso Khazrati Imam. Il complesso è dedicato ad uno dei primi imam di Tashkent. Nel complesso sono compresi più edifici. Visitiamo per prima la Madrasa Barak Khan. Le madrase, ne vedremo molte in questo viaggio, erano scuole superiori. Scuole che potremmo equiparare alle nostre scuole confessionali. Mentre l’istruzione di base veniva impartita nelle moschee, il passo successivo, che vedeva partecipare un numero ridotto di studenti, veniva impartito in queste istituzioni dove gli studenti si trasferivano a vivere. Oltre all’insegnamento del corano, ogni madrasa era specializzata in una materia specifica: letteratura, astronomia, medicina, ecc. Le strutture hanno una architettura sempre simile: un enorme portale che da accesso ad un cortile interno. L’edificio che circonda il cortile consiste sempre di due livelli. Al primo piano c’erano le stanze dove gli studenti dormivano. Al piano terra quelle dove si studiava. La Madrasa Barak Khan risale al 1532 e fu eretta dal governatore Nauruz Ahmad Khan. Barak Khan vuol dire “sovrano fortunato” e questo era proprio il soprannome del governatore. Come tutte le madrase che vedremo, non svolge più la sua antica attività ma, in questo caso, è stata riconvertita in un centro di sviluppo dell’artigianato ed ospita le botteghe di vari artigiani.

Di fronte la madrasa visitiamo un altro edificio del complesso, la biblioteca museo Moyie Mubarek. Risalente anch’essa al XVI secolo, prima madrasa, poi biblioteca, narra la leggenda che custodisse un capello di Maometto – il suo nome infatti vuol dire “capelli benedetti”. Al suo interno viene conservato il preziosissimo Corano del califfo Osman, il più antico del mondo (è proibito fotografarlo 😬). Il manoscritto, fonte primaria dell’Islam, è stato scritto su pelle di cervo verso la metà del VII secolo (644-646 d.C.) per ordine del terzo califfo, Osman ibn Affan. Fureno redatte solo 6 copie di questo tipo e ne sono rimaste al mondo solo 4. E la meglio conservata è proprio questa di Tashkent. Di dimensioni molto grandi, contiene 338 fogli (in origine dovevano essere 353 ma alcune pagine sono sparite) di pergamena con il testo originale del Corano.

Fu razziato da Amir Timur (Tamerlano) dalla città irachena di Bassora nel 1402, dopo aver sconfitto il sovrano turco Bayazid, e fu custodito nella Madrasa Nadir Divan-Begi di Samarcanda. Nel 1869, dopo che l’Asia centrale fu conquistata dalle truppe zariste al comando del generale Konstantin von Kaufmann, il corano fu inviato dal generale-governatore alla biblioteca imperiale di San Pietroburgo come bottino di guerra. Nel 1905 furono redatte ben 50 copie del corano (una di esse è visibile nel museo). Nel 1917, dopo la rivoluzione russa, Lenin lo consegnò ai Tatari della città di Ufa. Nel 1924 finalmente il corano tornò in Uzbekistan e dal 2007 è visibile in una teca nella biblioteca-museo. Nella biblioteca-museo sono conservati anche una quarantina di corani scritti in varie lingue.

L’ultima visita nel complesso è alla Moschea Khazrati Imam. Costruita nel 2007 secondo le regole dell’architettura del XVI secolo, possiede due minareti ed una galleria (aiwan) in legno, frutto del lavoro degli intagliatori di diverse scuole (Kokand, Samarcanda e Bukhara).

Risaliamo sul bus e ci spostiamo al mercato, il Bazar Chorsu. Questo mercato è il più grande ed il più antico di Tashkent. Sotto cupole decorate di piastrelle color turchese e smeraldo si alternano le bancarelle con le merci, suddivise per aree: pane, spezie, frutta secca, ecc. Una menzione speciale la merita il pane che, sia qui che in tutto il viaggio, risulterà molto buono. Chiamato Non (o Obi Non) è una focaccia a forma di disco. Viene per tradizione timbrato prima della cottura (dice la leggenda che in passato fosse utilizzato anche come forma di moneta) che dovrebbe avvenire nel tradizionale forno tandoor – anche se al mercato si utilizzano forni normali. Il pane è la prima cosa che si offre agli ospiti come segno di benvenuto in casa.

Dopo aver gironzolato nel mercato ed aver pranzato mangiando qualche spiedino o delle samsa (tipici fagottini di pasta sfoglia ripieni di carne o patate) andiamo a visitare la metropolitana. Visitare, si non avete letto male. Tashkent è l’unica città dell’Asia centrale ad avere una metropolitana. Costruita dai sovietici, ricalca le fermate decorate delle metropolitane di Mosca e San Pietroburgo. Lo scopo del regime sovietico era quello di stupire la popolazione grazie alla magnificenza del decoro, per sottolineare sia la potenza dello Stato, sia le conquiste che il comunismo aveva effettuato.

Avendo tempi ristretti visitiamo le fermate della metropolitana che ci porteranno all’ultima nostra meta della giornata, la Piazza dell’Indipendenza. Le fermate che visitiamo sono quelle di Chorsu ovviamente. Poi quella di Alisher Navoi, famoso poeta e scrittore. Situata sotto il Navoi Literary Museum presenta delle cupole decorate con ornamenti tradizionali e con motivi tipici delle moschee e madrase costruite durante il fulgore della Via della Seta. Sulle pareti alle spalle dei binari ci sono dei bei pannelli di ceramica decorati con scene tratte dalla raccolta di poesie Khamsa di Navoi. Con un collegamento sotterraneo passiamo sull’altra linea della metropolitana, alla fermata Paxtakor. Questa fermata è dedicata ai coltivatori di cotone (è il significato della parola paxtakor) e le pareti di questa stazione sono ricoperte da mosaici verdi e blu che rappresentano delle piante di cotone in fiore. Non bisogna mai dimenticare che l’Uzbekistan è uno dei principali produttori mondiali di cotone e che il prelievo delle acque dai due fiumi Amu Darya e Syr Darya per irrigare le coltivazioni sorte nelle steppe desertiche ha causato il disastro ecologico del Lago d’Aral. Arriviamo quindi alla fermata Mustaqillik Maydoni (Piazza dell’Indipendenza). Chiamata fermata Lenin fino al 1991, questa è una delle stazioni più sontuose della metropolitana di Tashkent. È costruita quasi interamente con marmo proveniente dal deserto di Kizil Kum nell’Uzbekistan occidentale. La sala a colonne con il suo soffitto finemente decorato e i lampadari di vetro danno la sensazione di essere in una sala da ballo. I motivi a stella sul pavimento simboleggiano il successo dei cosmonauti sovietici.

Usciamo dalla metro per ritrovarci a Piazza dell’Indipendenza. La prima cosa che l’occhio incrocia risalendo all’esterno è il Monumento alle Cicogne. In realtà questa originale installazione si chiamerebbe Ezgulik o “Arco delle buone e nobili intenzioni”. La struttura è composta da sedici colonne di marmo chiaro collegate da una sovrastruttura, su cui sono state poste figure di cicogne, simbolo di pace e serenità. Ci spiega Akrom che una volta le cicogne facevano sovente i nidi in città. Ora questi, come poi vedremo nel pomeriggio, si trovano solo al di fuori del centro urbano, sui pali dell’elettricità.
La piazza ospita molte fontane ed il Monumento all’Indipendenza. La zona della piazza che ospita il monumento però non è accessibile. Ci spiega sempre Akrom che il loro Secondo Presidente, Mirziyoyev, non ha voluto lavorare nel palazzo utilizzato dal Primo Presidente ma in un edificio della Piazza. Quindi per motivi di sicurezza la parte della stessa intorno al Palazzo della Presidenza non è più accessibile al pubblico.

Ci mettiamo all’ombra ed iniziamo a chiacchiere con Akrom – il sole picchia tantissimo ma essendo il clima secco basta spostarsi all’ombra per stare bene. Chiediamo ad Akrom di illustrarci il loro sistema politico. Lui ci spiega che il loro è un sistema presidenziale. Il Presidente nomina il governo. Ed anche i sindaci delle città (almeno delle più grandi visto che, come esempio, nomina Tashkent e Samarcanda). Lui (ovviamente) apprezza questo sistema perché permette che lo stato funzioni in maniera ordinata. Ci spiega che il primo presidente, Karimov, era molto avverso al passato sovietico ed aveva lavorato molto per restaurare i monumenti nazionali lasciati andare in rovina dai russi e per rivalutare la storia nazionale facendo leva sulla figura di Amir Timur. Mirziyoyev invece è più aperto all’eredità del passato. Sostiene che il 70% del passato sovietico sia negativo ma che ci sia stato anche un 30% di positivo. Col loro ateismo i sovietici avevano secolarizzato quella che era una società fortemente teocratica. Le donne hanno smesso di essere proprietà del padre o del marito, hanno smesso di indossare il burka, hanno potuto studiare, divorziare, lavorare. La società è rimasta religiosa, la maggioranza della popolazione è mussulmana sunnita, ma lo stato è laico. Si vende infatti e si può bere liberamente l’alcol (vino, birra, vodka). I russi avevano ricostruito Tashkent dopo il terremoto, cosa che da soli gli Uzbeki non avrebbero potuto fare facilmente. Hanno costruito strade ed infrastrutture, si certo… per sfruttare le risorse del suolo., ma comunque hanno portato benessere in un posto che ne aveva pochissimo.

Akrom ha tre figli e parliamo con lui anche del sistema scolastico uzbeko. Ci spiega come dopo la dissoluzione dell’URSS gli uzbeki abbiano abbandonato il modello sovietico per quello turco. Questo però non ha dato i risultati sperati e si sono orientati verso il modello coreano (inteso come Corea del Sud). Anche questo però si è rivelato essere troppo lontano dalle loro esigenze e stanno gradualmente ritornando al modello di istruzione sovietico, sebbene rivisitato. Lui ha fatto studiare i suoi figli in scuole russe, perché una buona conoscenza del russo, lingua franca di tutta l’area ex sovietica, apre moltissime opportunità lavorative.

Proseguiamo dopo la chiacchierata la nostra passeggiata nell’immensa piazza per andare al Memoriale ai Caduti della II Guerra Mondiale. Di fronte alla statua di una madre arde una fiamma e lungo un aiwan sono incisi su dei pannelli i nomi dei soldati caduti nel conflitto. Ci spiega Akrom che sebbene il fronte non sia arrivato fin qui, molti furono arruolati nell’Armata Rossa. L’Uzbekistan inoltre accolse moltissimi profughi, soprattutto bambini. Con famiglie che arrivarono ad accoglierne anche una decina, senza fare distinzione di etnia o nazionalità.

È arrivata l’ora di salutare Akrom e di trasferirci via bus a Samarcanda. Siamo fortunati. Abbiamo un autista poliglotta. Lui parla uzbeko, tagiko e russo. Noi italiano ed inglese. Di fatto comunichiamo a gesti 🤪 Comunque non ha problemi ad intendere le uniche due necessità che possono esserci nel trasferimento: sosta pipì e sosta per acquistare dell’acqua 😎

La due città distano 300 km e per buona parte del viaggio sonnecchiamo. Sebbene, come ho già accennato, il caldo sia secco, comunque girare nelle ore centrali della giornata è spossante. Prendiamo le nostre stanze al Grand Hotel Zarina (link qui), a due passi dal cuore della città, la Piazza Registan. Il tempo di una doccia ed il nostro bus ci accompagna a cena al Ristorante Istiqlol (link qui)

8 Agosto

Samarcanda, la capitale dell’impero di Tamerlano. La città più famosa della Via della Seta. Posta a 700 metri di altezza, è anche la più fresca – o meglio: la meno calda 😎 – delle città imperiali. Racconta infatti la leggenda che Amir Timur (qui non piace il nome occidentale Tamerlano, perché la radice del nome ricorda il fatto che, a causa di una ferita di guerra, fosse zoppo) per scegliere la sua futura capitale facesse inviare dei carri carichi di carne nelle città principali e che quella sul carretto inviato a Samarcanda fosse quella che iniziasse a marcire più tardi, indicando cosi condizioni climatiche più miti.

Come guida nella nostra giornata a Samarcanda abbiamo una simpatica ragazza di nome Zarnigor (Zara per gli amici). Trent’anni, sposata da quattro anni, due figli. Chiacchierando ci spiega che non è normale in Uzbekistan sposarsi così tardi. Le ragazze si sposano a 18 anni e subito mettono in cantiere il primo figlio. Lei ha voluto studiare e realizzarsi nel lavoro, ma normalmente le pressioni del clan familiare fanno si che buona parte delle ragazze segua questa tradizione. Quando una ragazza si sposa, di norma si trasferisce a casa del marito o comunque la nuova famiglia si stabilisce nella zona della città dove vive la famiglia di lui. Lei stessa, che aveva sempre vissuto nella zona urbana di Samarcanda, con il matrimonio si è trasferita in campagna 🤷🏻‍♂️ Emancipazione si, ma tradizioni familiari ancora fortissime, quindi.
Zara ha frequentato per quattro anni l’Istituto Statale per Lingue Straniere e, anche se non è mai stata in Italia, parla un buon italiano.

Sempre allegra e sorridente ci accompagna alla prima tappa del nostro tour: il Mausoleo Gur Emir, o Mausoleo di Tamerlano. Gur Emir significa infatti “tomba del re” in tagiko. Questo complesso architettonico, caratterizzato da una stupenda cupola blu a coste (a Tamerlano piaceva questo decoro e tutte le cupole erette durante il suo regno sono fatte così), comprende le tombe di Amir Timur (Tamerlano), dei suoi figli Shokhrukh e Miranshah, dei nipoti Ulugbek e Muhammad.

Quello che ci appare un monumento splendido ha rischiato di essere perso per sempre a causa dell’incuria sovietica. Restaurato dal Primo Presidente Karimov (notiamo che ci tengono a ripetere sempre la numerazione dei loro due presidenti, forse per sottolineare che stanno parlando dei capi dell’Uzbekistan indipendente) il sito aveva già visto crollare i due minareti che erano posti ai lati del portale d’ingresso. Il restauro sia dell’esterno che dell’interno è stato eccezionale, con grande utilizzo di oro per riportare a nuovo i decori della sala principale.

A livello architettonico il mausoleo è molto importante perché è un prototipo dei successivi mausolei dei Grandi Moghul indiani (l’Impero Moghul in India fu fondato da uno dei discenti di Tamerlano: Zahiriddin Muhammad Bobur Podshoh o più semplicemente Babur), in particolare il Mausoleo di Humayun a Delhi e il Taj Mahal ad Agra. Quello che subito salta all’occhio è la piccola dimensione di molte delle pietre tombali site nello spazio interno del mausoleo. Ci spiega Zara che sono solo tombe decorative e che indicano semplicemente la posizione delle tombe reali che fisicamente sono site nella cripta sotto la sala principale. Al contrario di altre civiltà, in cui il leader veniva sepolto da solo nel suo mausoleo, i timuridi condividevano la sepoltura con familiari, sant’uomini e alti funzionari del loro regno. Zara ci fa notare come ci sia una tomba separata dalle altre e sovrastata da un palo con appesa una coda di volpe. Quello è il simbolo che in quella tomba è sepolto un sant’uomo.

Nel 1941 un gruppo di archeologi sovietici guidati dall’antropologo russo Mikhail M. Gerasimov riesumò i corpi sepolti nella cripta e cofermò che Amir Timur fosse molto alto per i suoi tempi, circa un metro ed ottanta. L’esumazione confermò inoltre che il morto era rimasto azzoppato per una ferita alla gamba destra. Vi erano inoltre tracce di altre ferite che avevano invalidato anche l’uso del braccio destro. Dal teschio, Gerasimov riuscì anche a ricostruire l’aspetto di Tamerlano, che era caratterizzato da tratti molto vicini a quelli mongoli e non a quelli persiani, come si era sempre creduto.

Per la seconda tappa ci spostiamo nel vicino villaggio di Konigil per visitare la cartiera Meros. Qui infatti viene prodotta con metodo tradizionale l’apprezzata carta di Samarcanda. Intanto due parole sull’incantevole location. La cartiera è immersa nella natura: alberi ombrosi, l’acqua gorgogliante del fiume Siab che muove le pale dei mulini che servono a lavorare l’impasto, una piccola casa del the all’ingresso per gustare il chai. La base della carta è il gelso. La corteccia viene pulita dall’esterno e fatta bollire a lungo. Quindi l’impasto viene sbattuto in dei mortai per fare un composto dalla consistenza omogenea (è in questa fase che viene sfruttata la corrente del fiume per azionare i paioli). L’impasto risultante viene successivamente posto in una vasca con acqua e, filtrato, posto su un grande foglio di tela. Questo viene pressato (sotto una pietra) e poi asciugato in posizione verticale per un giorno. La carta secca risultante è piuttosto resistente. Per eliminare la ruvidità della carta, questa viene spianata su un tavolo con una conchiglia o pezzo di granito, così da ottenere la sua famosa levigatezza. Qui sotto metto un video che ho trovato in cui sono seguite passo passo le varie fasi

La carta di Samarcanda ha un caratteristico colore giallo. Questo perchè non è sbiancata con prodotti chimici e quindi la sua durata è decine di volte superiore a quella di una normale carta bianca. Da quel che ci dicono, se una semplice carta bianca di buona qualità dura 40-50 anni, la carta di Samarcanda dura 300-400 anni. La cartiera di Samarcanda non produce solo cartoline, blocchi per appunti, maschere, ma anche abiti, bambole e borse. Tutto acquistabile nel negozietto della cartiera. Al di là dei souveir, la carta di Samarcanda è in realtà ampiamente utilizzata nei lavori di restauro dei manoscritti antichi.

La location non comprende solo la cartiera. Proseguendo nella visita infatti abbiamo potuto visitare anche il frantoio, in cui si ricava l’olio da semi di cotone, melone, cumino e sesamo. Il prodotto finale è un olio simile al nostro olio di lino. Successivamente abbiamo visitato il laboratorio del vasaio, dove alcuni di noi si sono potuti cimentare nel modellare la creta (con noialtri che cantavamo il tema di Ghost in sottofondo 🤪)

Torniamo verso Samarcanda e visitiamo Shah-i-Zinda (il re vivente), un complesso di tombe e mausolei dove, narra la leggenda, è sepolto anche il cugino di Maometto. Kusam Ibn Abbas, cugino del profeta, raggiunse l’Asia centrale a seguito dell’invasione araba nel VII secolo per predicare l’Islam. Le leggende popolari narrano che egli, dopo essere stato decapitato per la sua fede, prese la propria testa e andò in un pozzo profondo (il Giardino del Paradiso), dove starebbe ancora vivendo. Il complesso di Shah-i-Zinda si è formato in più di nove secoli (dal XI al XIX) e ora include più di venti edifici.

I mausolei hanno splendide facciate coperte da piastrelle delle varie sfumature del blu e del turchese, con scritte in arabo. Lingua che gli uzbeki non parlano più, tra l’altro… L’importanza di questo mausoleo per i fedeli è enorme perché, se si fosse impossibilitati a compiere il pellegrinaggio rituale a La Mecca, questo può essere rimpiazzato da un pellegrinaggio sulla tomba di una persona santa, come quella di Kusam Ibn Abbas.

Ci spostiamo all’enorme Moschea di Bibi-Khanym (o Bibi-Khanum). Nel XV secolo è stata una delle più grandi e più belle moschee del mondo islamico. Fu costruita usando la ricchezza saccheggiata da Tamerlano durante la conquista dell’India. I problemi di staticità della struttura però si rivelarono fin da subito. I lavori di restauro furono continui, finché alla fine del XVI secolo la struttura fu abbandonata al suo destino e fu erosa dagli agenti atmosferici e semidistrutta dai terremoti. Il restauro fu ripreso dai sovietici e continua tutt’ora. Qui sopra ho pubblicato alcune fotografie trovate in rete che illustrano lo stato di abbandono del sito, prima che iniziassero i lavori di restauro.
Le cupole della moschea sono tutte a coste, come sempre nell’epoca di Tamerlano, e nel cortile si trova un piedistallo di pietra per contenere un Corano fatto di pregiati blocchi di marmo decorati. Ci racconta Zara che, secondo la locale tradizione locale, se una donna camminasse carponi sotto il piedistallo del Corano, avrebbe molti figli.

Ma la leggenda più famosa sulla moschea è quella che la lega alla figura di Bibi-Khanum (non la moglie di Tamerlano ma la più favorita, ci spiega sempre Zara). Secondo la leggenda, la moschea fu costruita dalla moglie prediletta del Tamerlano, Bibi-Khanum, in onore del suo ritorno da una spedizione in India. Secondo i suoi desideri, la moschea doveva essere la creazione più grandiosa di Samarcanda. Un architetto, che guidava la costruzione della moschea, si innamorò perdutamente della bella regina e ritardò in ogni modo il completamento dei lavori. Bibi Khanum era furiosa per il ritardo, poiché Timur sarebbe dovuto tornare molto presto e l’edificio non era ancora pronto. Quando la regina chiese all’architetto di affrettarsi con la costruzione della moschea, l’architetto pose una condizione: l’edificio sarebbe stato pronto in tempo, ma solo se lei gli avesse permesso di baciarla. In risposta, la regina ordinò ad una serva di portare uova dipinte di diversi colori e disse all’architetto: Guarda queste uova. Sono tutte diverse solo dall’esterno, ma dentro sono uguali. Lo stesso per le donne! Posso darvi una qualsiasi delle mie schiave a vostra scelta. Allora l’architetto chiese di portare due bicchieri, uno dei quali riempì d’acqua, e l’altro di vino bianco: Guarda questi bicchieri. Hanno lo stesso aspetto. Ma se bevo dal primo, non sento niente. Se invece bevo dall’altro, mi brucerà. Lo stesso fa l’amore. La regina dovette accettare i termini dello sfacciato architetto, ma il suo bacio fu così caldo, che le lasciò una traccia luminosa sulla guancia. Timur tornò vittorioso dalla sua spedizione e fu deliziato dal dono della moglie: la maestosa moschea era stata completata nei tempi previsti. Ma il sovrano non poté fare a meno di notare la traccia del bacio sulla guancia dell’amata moglie. Oltraggiato, Tamerlano ordinò di uccidere l’architetto, che si lanciò dal minareto per sfuggire alle guardie. Il sovrano decretò che da allora in poi le donne del suo impero portassero il velo, secondo lo stile arabo.

A piedi raggiungiamo la vicina Piazza Registan. Il nome vuol dire “luogo sabbioso” perché in passato qui scorreva un canale che poi cambiò percorso. Registan era una piazza pubblica, dove la gente si riuniva per ascoltare i proclami reali, annunciati dagli squilli di enormi tubi di rame chiamati dzharchis. La piazza è incorniciata da tre madrase spettacolari: la Madrasa di Ulugh Beg (1417-1420), la Madrasa di Sher-Dor (1619-1636) e la Madrasa di Tilya-Kori (1646-1660).

La Madrasa di Ulugh Beg (sulla sinistra) fu la prima ad essere costruita ed è caratterizzata da questo immenso portale munito di un arco acuto e decorato da ornamenti geometrici stilizzati. Uno dei suoi due minareti è l’unico che può essere visitato ed è munito di un buco sul soffitto da cui si può ammirare la piazza sottostante. Gli scalini dei minareti sono sempre numericamente pochi ma molto alti. Questo perché i gradini alti costringono gli imam a piegarsi per salire, inchinandosi così ogni volta ad Allah. Fu solo nel XVII secolo che il sovrano di Samarcanda, Yalangtush Bakhodur, ordinò la costruzione della Madrasa di Sher-Dor (sulla destra). Nel decoro della facciata risaltano subito i mosaici della tigre con un sole nascente sul dorso, sia perché l’islam proibirebbe la raffigurazione di esseri viventi su edifici religiosi, sia perché questi decori rappresentano i più antichi motivi religiosi persiani mitraici. Dieci anni dopo fu costruita la Madrasa di Tilya-Kori (al centro) che comprende anche una moschea, la Moschea d’Oro. Questa prende il nome dall’abbondate doratura della sua sala principale.

Tutte e tre le madrase ospitano botteghe di artigianato locale e sono spesso utilizzate come sfondo per le foto dei matrimoni. In Uzbekistan infatti ci si può sposare in qualunque giorno della settimana. Le spose vanno alla cerimonia con abiti bianchi di foggia occidentale ma zeppi di paillettes. Successivamente col fotografo fanno vari servizi indossando abiti tradizionali, a nostro giudizio notevolmente più belli di quelli sfruttati per la cerimonia ufficiale.

Dopo essere tornati in albergo per un po’ di ristoro, andiamo a cena da una famiglia nelle campagne di Samarcanda. Così abbiamo l’occasione di provare per la prima volta il plov (lo pronunciano plof). Si tratta di riso lasciato cuocere nello zirvak, un intingolo a base di carne stufata (di solito montone o capra), carote, cipolle, e verdure. Viene servito su un grande piatto da portata messo al centro del tavolo: una montagna di riso cosparsa con l’intigolo e i pezzi dello stufato. A volte a mo’ di decorazione vengono aggiunte uova di quaglia sode tagliate a metà.

Dopo cena torniamo a Piazza Registan perché dalle 21,00 alle 23,00 viene proiettato uno spettacolo luminoso sulle facciate delle tre medrase.

Lo si può ammirare gratuitamente dalla piattaforma panoramica a lato della piazza o, pagando il biglietto, dall’interno della piazza stessa per sentirsi immersi nello spettacolo luminoso.

9 Agosto

Lasciamo Samarcanda per le white mountains, una zona montuosa alle spalle di Bukhara. Il nome è legato alle abbondanti cave di marmo, famose perché da qui sono stati estratti i marmi che decorano le fermate della metropolitana di Mosca, San Pietroburgo e Tashkent.
Arrivati in zona recuperiamo la nostra guida per i prossimi due giorni, Ruslan. Ruslan è di Nurata (ma trovate anche la traslitterazione Nurota) e parla un buon inglese. Ci accompagna al villaggio di Dara. Questo villaggio è una meta usuale per chi da Bukhara volesse passare una giornata di picnic al fresco. Siamo in montagna e sotto le fronde degli alberi la temperatura è deliziosa. Il villaggio, dove vivono circa 200 persone, è un’isola verde in un paesaggio brullo e roccioso dove viene praticata la pastorizia, basata sull’allevamento di pecore e capre.

Scendiamo dall’autobus ed andiamo a fare un giro nel villaggio. Una famiglia ci invita ad entrare in casa loro e, come segno di ospitalità, ci offrono un paio di forme di pane. Sono gentilissimi e accettiamo il loro invito. Ci portano del burro e delle palline di formaggio di capra.

Il loro grande orgoglio è una delle figlie (mi sembra di capire che abbiano cinque figli in tutto), un’atleta di wrestling (uno sport molto diffuso in questa parte del mondo). Sul muro campeggiano ben tre medaglie d’oro! Lei si chiama Shakhlo Khidirova ed è timidissima ed assolutamente non vuole farsi fotografare, nonostante l’incitamento degli orgogliosissimi genitori. Ho cercato sul web ma ho trovato solo questo video in cui ahimè non vince l’incontro 🤷🏻‍♂️

Dopo questa sosta inattesa proseguiamo il nostro giro lasciando il villaggio ed incamminandoci per un leggerissimo trek sulle alture alle spalle del villaggio. Il terreno è brullo ed incrociamo alcuni ragazzi che badano alle greggi. Siamo intorno all’ora di pranzo, il sole picchia come non mai e ci limitiamo ad un giro in cerchio di 3 km per spaziare un po’ lo sguardo su queste lande. Se fosse curiosi vi lascio qui il percorso registrato con Wikiloc.

Per pranzo raggiungiamo la guesthouse di Ruslan (link qui) a Nurata. Poi a piedi andiamo a visitare Nurata. In realtà sono solo due le location da visitare. La prima è il santuario di Chasma, sorto sulle omonime sorgenti (chasma in tagiko vuol dire fonte santa). L’acqua delle sorgenti ha la fama di essere miracolosa e di poter curare qualsiasi malattia. Ruslan ci racconta che le leggende narrano come taaaaanto tempo fa qui cadde un meteorite (infatti nur vuol dire luce) e le sorgenti sacre apparvero dal nulla in questo posto desertico. L’acqua delle sorgenti ha una temperatura costante di 19,5 gradi centigradi e contiene 15 microelementi, tra cui argento e bromo. Le sorgenti formano un laghetto in cui vivono delle trote (chiamate karabalik, che vuol dire pesce nero), sacre anch’esse visto che vivono in acqua sacra.

Torreggianti sul santuario, sorgono i resti della Fortezza di Alessandro Magno. In realtà poco rimane della serie di fortificazioni e contrafforti risalenti alla fondazione della città di Nur da parte di Alessandro Magno circa 2300 anni fa. Il forte aveva lo scopo di difendere gli insediamenti del sud dai nomadi della steppa provenienti da nord.

10 Agosto

Giornata dedicata all’archeologia quella di oggi. Dobbiamo visitare due siti dove è possibile ammirare dei petroglifi. Il primo è letteralmente bordo strada a Oqtepa (vi stanno addirittura costruendo a fianco un hotel con spa e jurte per chi volesse provare l’ebrezza di dormire nello stile dei nomadi ma con tutti i confort a 10 metri 😎). Le incisioni rupestri sono di facilissimo accesso e rappresentano scene di caccia. Ci spiega Ruslan che in queste zone erano presenti delle sorgenti. Sosta obbligata per le carovane ma anche luogo dove si concentrava la fauna, che quindi veniva cacciata. Se ho capito bene i petroglifi dove compaiono dei cammelli dovrebbero risalire al XVI-XVII secolo e rappresentare le carovane in sosta qui.

Comunque questo è un sito minore. La nostra meta principale è Sarmishsoy, che invece presenta incisioni risalenti ad un periodo compreso tra 2000 e 5000 anni fa.

La strada è ben asfaltata ma a 5 km dall’arrivo il nostro autista accosta. Davanti a noi c’è un piccolo cantiere stradale e lui teme che la strada non sia più facilmente percorribile e di non avere spazio per fare inversione. Noi saremmo per proseguire, o quantomeno raggiungere il cantiere per prendere informazioni, ma lui è irremovibile. Chi volesse, può proseguire a piedi!
Valutiamo che il sole picchia già tanto, sono le 11, ma è molto ventilato. Un terzo di noi decide di provare, ci portiamo una bottiglietta d’acqua e muniti di cappello raggiungiamo il cantiere.
In realtà abbiamo adocchiato un camion con cassone che in cuor nostro vorremmo “noleggiare” agli operai per un passaggio, facendo leva sul forte vantaggio che ci offre il cambio dollaro-som 😇
E così è! Ci si avvicina Alì che in russo ci chiede se parlassimo russo appunto. Ovviamente no! Però con noi c’è Ruslan che chiacchiera a lungo con i due operai. Loro in effetti debbono andarci a breve a Sarmishsoy, recuperando anche altri due compagni per strada, perché è lì che dovranno trascorrere la pausa pranzo.
E così ci ritroviamo in Asia centrale sul cassone di uno sgangherato camion, seduti su lastroni di cemento armato!

Il che è stata anche una bella fortuna perché in effetti quei 5 km a piedi sarebbero stati veramente duri. Appena arrivati ringraziamo Alì, che rifiuta anche il piccolo regalo che volevamo lasciargli 💰 A Sarmishsoy c’è un resort, chiuso in questa stagione. Sotto uno degli alberi dell’ingresso sono riuniti gli operai. Subito contrattiamo con uno di loro, proprietario di un pulmino, il prezzo per un passaggio al ritorno e così possiamo andare tranquilli ad esplorare il canyon ed i suoi petroglifi.

La camminata nel canyon di Sarmishsoy non è lunghissima. Le incisioni rupestri sono molte e spesso sono facilmente accessibili. Il sole picchia veramente tanto e qui non c’è assolutamente riparo. Notiamo dalle descrizioni di Ruslan che la fauna è molto cambiata. Ci fa vedere incisioni di gazelle, yak e tigri, tutti animali che non vivono più qui.

Camminando incrociamo una conduttura dell’acqua danneggiata da cui sgorga più che uno zampillo, una vera fontana. E questo mi fa riflettere su un altro elemento che avevo notato la mattina precedente, durante lo spostamento da Samarcanda a Nurata. Mi aspettavo lungo la strada un paesaggio brullo, le famose steppe infuocate che nel medioevo venivano percorse dai cavalli mongoli e tatari. Invece vedevo molto verde, molti campi coltivati. Ed ho ricollegato quanto letto sul Lago d’Aral e la sua distruzione. Le opere idrauliche sovietiche avevano permesso di coltivare cotone, una pianta avida d’acqua, nel deserto. Ma l’enorme inefficienza di questo sistema, che ne disperdeva circa l’80 %, ha fatto si che l’Amu Darya ed il Syr Daria non portassero più acqua sufficiente a sostentare i livelli dell’Aral. E qui ne avevo la prova. Una fontana d’acqua in piena vista che si andava a perdere nella gola secca di un canyon senza che importasse a nessuno.

Tornati al resort il nostro pulmino viene liberato delle taniche di carburante che custodiva sui suoi sedili 😬 e a spinta viene rimesso in moto 😬😬 e così veniamo riaccompagnati all’autobus, dove ci attendeva il resto del gruppo.

Lasciamo Ruslan a Navoiy (tornerà via bus di linea a Nurata) e dopo aver pranzato in un chiosco lungo la strada, raggiungiamo Bukhara.

Il nostro albergo è il Grand Nodirbek, nella città vecchia, a letteralmente due passi dalla piazza centrale.
Prese le stanze ci facciamo due passi per la città vecchia, completamente pedonale, e ad ora di cena siamo ospiti del Ristorante Dalon. Ceniamo sulla terrazza, con la sua superba vista al tramonto sul minareto più alto e famoso di Bukhara, chiamato Kalon (ma trovate spesso anche la grafia Kalyan). Il minareto è l’unico monumento illuminato durante la notte e, giustamente, dopo cena non resistiamo ad andarlo a vedere.

11 Agosto

La nostra guida per Bukhara è la signora Mubashira che arriva puntuale al nostro albergo per accompagnarci nella visita della città vecchia. Parla un ottimo italiano – è stata più volte in Italia come traduttrice per varie missioni commerciali – ed è una donna arguta e di spirito. Ci racconta come anche lei da ragazza vivesse poco oltre il nostro albergo, nel ghetto (l’albergo è a pochi metri dalla sinagoga di Bukhara) anche se ora, dopo matrimonio e divorzio, preferisca vivere nella città nuova. Parlandoci di se, ci racconta che ha due figli che studiano ingegneria in Cina. Due ragazzi che oltre a parlare, come tutti qui, uzbeko, tagiko e russo, parlano anche inglese e cinese mandarino. Un biglietto da visita non di poco conto per il loro futuro. E questo mi rammenta quanto avevo appreso preparando il viaggio. Mentre il grosso dell’emigrazione di basso livello è ancora diretta verso la Russia – proprio perché tutti parlano il russo qui – è la Cina che sta allargando la sua influenza sull’Asia centrale per strappare queste repubbliche dall’orizzonte di Mosca. Mubashira ci spiega che a Bukhara la lingua principale è il tagiko, completamente diverso dall’uzbeko. L’uzbeko è una lingua turca, il tagiko è una lingua iranica molto, molto simile al farsi persiano.

Iniziamo il nostro tour dal Mausoleo di Ismail Samani (detto comunemente Mausoleo dei Samanidi), sito in un parco appena fuori dalla città vecchia. Costruito nel 905 d.C. raccoglie appunto le spoglie della famiglia samanide: dell’emiro Ismail Samani, del padre e dei figli. Questa era una dinastia di origine persiana che governò dall’819 al 1005 le regioni del Khorasan (l’attuale Afghanistan) e della Trasoxiana (l’attuale Uzbekistan – nell’antichità il fiume Amu Darya era chiamato Oxus), avendo come loro capitale proprio Bukhara.

Insieme al Kalon questo Mausoleo è l’unico monumento risparmiato dalla furia distruttrice dei mongoli di Gengis Khan. I mongoli devastarono l’Asia centrale e non solo, radendo al suolo le città dopo averle espugnate ed averne massacrato gli abitanti. Per molti anni i superstiti furono costretti a vivere nelle jurte, le classiche tende dei nomadi della steppa, così da rendere il territorio facilmente controllabile alle orde mongole. Della città fu risparmiato solo il minareto Kalon perché Gengis Khan ne vide l’utilità come torre di vedetta. Ed il mausoleo? In realtà non sarebbe arrivato fino a noi se al tempo non fosse stato sepolto dal fango delle inondazioni. Il sito fu riscoperto solo nel 1934 dagli archeologi sovietici. Mubashira ci fa notare che a livello architettonico l’edificio presenti un mix di elementi zoroastriani ed islamici, testimonianza del subentrare della nuova religione alla precedente.

Visitiamo successivamente il vicino Mausoleo Chashma Ayub. Costruito sotto il regno di Tamerlano, il mausoleo ospita un pozzo, la cui acqua è considerata pura e salutare. Quotidianamente è meta di visita da parte di persone comuni e pellegrini che ne bevono l’acqua per mezzo di ciotole. L’acqua è il bene più prezioso di Bukhara ed una volta ne era il segno distintivo. Mubashira ci mostra una mappa in cui sono riportate le cento piscine ed i canali che percorrevano tutta la città. Le cupole turchesi delle sue moschee erano un richiamo per le carovane che dal colore intravisto in lontananza presagivano l’abbondanza d’acqua racchiusa tra le sue mura. Furono i russi a creare una canalizzazione sotterranea e ad interrare i vecchi canali e le piscine. Quest’opera ebbe il pregio di migliorare le condizioni igenico-sanitarie ma allontanarono per sempre le cicogne che erano ospiti fisse della zona. Solo due piscine furono preservate: quella di fronte la Moschea del Venerdì e quella della Lyabi Khause, la piazza centrale.

La Moschea Bolo Hauz o Moschea del Venerdì è proprio la tappa successiva. Mentre le moschee normalmente sono frequentate tutti i giorni, questa moschea in particolare, costruita nel 1712 di fronte la cittadella, era dedicata alla preghiera dell’emiro di Bukhara. La caratteristica che salta all’occhio sono le sue alte colonne di legno. L’utilizzo del legno era simbolo di magnificenza perché questo era un materiale raro in Asia centrale, al contrario dell’oro che era molto più comune. Il legno delle colonne è di olmo o di noce e fu trasportato fin qui a dorso di cammello.

Visitiamo poi la Cittadella (detta anche Ark o Arq). E qui veniamo a scoprire una storia di questi luoghi che ignoravamo del tutto. Quella che vediamo è una ricostruzione parziale della vecchia fortezza. Questo perché le mura della città e la fortezza stessa furono distrutti durante la conquista da parte dei bolscevichi dell’Emirato di Bukhara. Le mura non furono mai ricostruite e sul loro tracciato ormai sorge la città nuova. Solo la parte principale della fortezza con la sala del trono fu ricostruita, basandosi sulle prospezioni archeologiche, sebbene senza certezze sull’arredo dato che era proibito ritrarne l’interno e non sono quindi giunte a noi sufficienti testimonianze.

I tre principali emirati dell’Asia centrale, Khiva, Bukhara e Kokand furono sottomessi all’Impero Zarista dal generale Konstantin von Kaufman. Gli emirati vennero trasformati in protettorati: la Russia non interferiva con i loro affari interni, ma la politica estera e di difesa era appannaggio dell’Impero. Con la Rivoluzione di Ottobre e l’abdicazione dello Zar Nicola II gli emiri ritennero sciolta la loro fedeltà all’Impero e si resero di nuovo indipendenti, restando comunque a guardare quello che succedeva nella guerra tra bianchi e rossi. Con la vittoria di questi ultimi, gli emiri di Khiva e di Kokand accolsero i bolscevichi, pensando che lo status quo non sarebbe cambiato. L’Emiro di Bukhara invece impedì loro di installarsi nei suoi territori, anche a causa dei suoi forti legami personali con la famiglia Romanov. Dopo un anno di spionaggio, i bolscevichi imprigionarono a tradimento le famiglie reali dei due emirati e spedirono i prigionieri nei gulag. A quel punto i bolscevichi (notavo che Mubashira nei suoi racconti è sempre molto attenta a distinguere tra i bolscevichi ed i sovietici) attaccarono l’Emirato di Bukhara. Ma l’Emiro Mohammed Alim Khan aveva avuto il tempo di prepararsi a resistere e le sue truppe riuscirono inizialmente a fermare l’assalto alla città. I russi, guidati dal generale Michail Frunze, erano sul punto di rinunciare quando Lenin riuscì ad inviare tre aerei nella zona di guerra. Gli abitanti di Bukhara così videro per la prima volta sia degli aerei librarsi in cielo che un bombardamento aereo! Le mura della Cittadella erano composte di paglia mista a fango ed argilla e l’intera fortezza fu distrutta facilmente dai bombardamenti. L’Emiro fu costretto a fuggire in Afghanistan ed anche Bukhara entrò a far parte dell’Unione Sovietica.

Proprio lungo la rampa di accesso erano site le prigioni dell’Emiro, locali che adesso sono visibili con dei manichini al loro interno a rappresentare i prigionieri. Dall’ingresso si accede ad un primo edificio, la Moschea Djome, adibita a museo. La moschea stessa è un edificio risalente originariamente al XVII secolo, circondato su tre lati da un portico (aiwan) con colonne lignee. La moschea ospita una collezione di testi risalenti ad un periodo che spazia dal XVII al XX secolo.

Dopo aver visitato il museo siamo passati alla ricostruzione della Sala del Trono. La sala consiste in un cortile a cielo aperto, chiuso da tutti i lati da un portico decorato da colonne lignee. Ci viene sempre spiegato che questi alti portici, chiamati appunto aiwan, sono sempre rivolti a nord, così da catturare i venti più freschi e dare maggior sollievo rispetto al resto dell’edificio.

Finita la visita alla Cittadella, proseguiamo a piedi (sotto un sole cocente 🌞) fino al Kalon. L’alto minareto (kalon vuol dire proprio grande) sorge nel lato di una piazza su cui si affacciano le imponenti facciate decorate con piastrelle della Madrasa Mir-i-Arab e della Moschea Poi-Kalon. Visitiamo quest’ultima, moschea del 1500 che, oltre al già citato portale piastrellato, si fregia di 288 cupole ed un enorme cortile circondato da una serie di porticati a loro volta sorretti da 288 colonne. L’enorme capienza della moschea permetteva di accogliere in contemporanea fino a 12000 fedeli intenti nella preghiera.

Prima dell’uscita dalla moschea incrociamo in banchetto che vende profumi e la nostra guida ci spiega che sono profumi adatti a donne religiose, in quanto non contengono alcool e quindi sono più in linea con i dettami dell’Islam.

Passando attraverso i bazar torniamo alla piazza principale, per ammirare la Madrasa Nadir Divan-Begi. I bazar coperti in origine erano tematici. C’era il bazar dei cambiavalute, quello dei cappellai, quello dei gioiellieri, quello dei tessitori di tappeti. A parte quest’ultimo, gli altri accolgono adesso un mix di negozietti di artigianato, che spaziano dalla paccottiglia a produzioni di altissima qualità.

Un utensile molto venduto nei negozietti di Bukhara sono delle forbici a forma di cicogna. La strana forma in realtà è un mix tra la celebrazione delle cicogne che vivevano in città prima dell’interramento delle piscine e la funzione per cui effettivamente questi strumenti erano dedicati. Avendo l’abitudine di ricoprire di piastrelle decorate gli edifici sacri, si necessitava di preparare anzitempo un disegno su carta del motivo finale. Questo disegno andava poi ritagliato, in modo da utilizzare i tasselli di carta come modelli per scolpire le diverse pietre colorate, pietre che successivamente sarebbero state riunite su una base di gesso a formare la figura originale. Vista la complessità del decoro erano necessarie appunto delle forbici lunghe e leggermente ricurve per operare un lavoro di precisione.

Il complesso della Lyab-i Hauz (o Lyab-i Khauz) rappresenta il centro della città vecchia e comprende la madrasa Kukeldash, la più grande della città e di tutta l’Asia centrale), la Khanqa (una foresteria per i sufi itineranti) ed una seconda madrasa, la Madrasa Nadir Divan-Begi. Il tutto sorge intorno all’howz, l’altra piscina non interrata dai sovietici. Nella piazza c’è anche la gettonatissima statua del Mullah Nasreddin Hodja (oppure Khoja) sul suo asinello, una figura del folklore protagonista di storielle divertenti ed aneddoti. Gettonatissima nel senso che i turisti locali fanno la fila per farsi fotografare ai piedi della statua.

Prima di cena prenotiamo per assistere ad uno spettacolo di danza e moda alla Madrasa Nadir Divan-Begi. Si alternano ballerine e modelle per illustrare sia le danze tipiche che gli abiti in vendita nella locale boutique. Ceniamo nella piazza al ristorante Labi Hovuz.

12 Agosto

Prima tappa della giornata è la Madrasa Chor Minor, caso di nomen omen visto che il chor minor vuol dire quattro minareti e l’edificio lo rispecchia in pieno. Al contrario delle madrase classiche, che sono edifici a due piani, in cui in uno erano ospitate le stanze da letto ed in un’altro le aule, qui abbiamo un solo piano. Questo perché la madrasa fu costruita nel 1807 con i fondi del ricco mercante turcomanno, Khalif Khoudoïd, che la intese come una scuola di quartiere. Ragion per cui gli studenti sarebbero tornati a casa a dormire.

Di fronte alla madrasa troviamo una bancarella piena zeppa di anticaglie. Perdiamo molto tempo tra le chincaglierie del periodo sovietico dell’Uzbekistan: medaglie, spillette, cappelli e berretti, divise e vecchi attrezzi, casse di orologi decorati con falce e martello.

Soddisfatta la nostra sete di passato sovietico, saliamo sul bus per raggiungere il Mausoleo di Bakhouddin Nakshband. Il santuario è stato costruito sul luogo di nascita e morte di questo santo sufi, figura di grande rilevanza nell’Islam locale e considerato il patrono di Bukhara. La stessa Mubashira ci racconta che da ragazza con le amiche veniva qui a pregare per accattivarsi la benevolenza del santo in vista di qualche esame 😅 È venerdì e gli addetti al santuario stanno iniziando a stendere ampi tappeti ovunque, perché la preghiera del giorno sarà molto partecipata.

Ancora sul bus per visitare il Palazzo d’Estate dell’Emiro di Bukhara (o Sitorai Mohi Khossa). Questo palazzo fu edificato dall’ultimo emiro, Mohammed Alim Khan. L’Emirato era entrato nell’orbita dell’Impero Russo sotto il padre dell’Emiro, Abd al-Ahad Khan (ricordate che vi avevo detto che era un protettorato russo?). Il giovane Alim era stato mandato per tre anni, dagli 11 ai 14 anni, a San Pietroburgo a studiare, ospite alla corte dei Romanov (come ostaggio diremmo noi 😬) e poi vi era ritornato a 18 anni, per altri tre anni, per frequentare l’accademia militare. Era rimasto affascinato da San Pietroburgo e aveva anche intessuto uno stretto rapporto con la Principessa Olga, la primogenita dello Zar.

Quando nel 1911 divenne Emiro, chiamò a Bukhara gli architetti sanpietroburghesi e fece costruire un palazzo che ricordasse nella architettura e nell’arredo quelli della capitale russa. Il luogo fu scelto per la posizione più ventilata rispetto alla città e visitando le stanze del palazzo effettivamente si notano richiami evidenti all’arredo occidentale – basti pensare alle stufe di maiolica con fregi che rappresentano tedeschi festanti che brindano con delle birre (NON dimenticate che al tempo dell’emirato vigeva una stretta sharia, con le donne coperte dal burkha e l’alcool severamente proibito).

Mubashira ci racconta che quando, nel febbraio 1917, ci fu la prima rivoluzione in Russia che portò all’abdicazione di Nicola II, l’Emiro scrisse alla Principessa Olga offrendole come rifugio sicuro la città di Bukhara e come residenza il suo Palazzo d’Estate. Ma la giovane principessa preferì rimanere con la sua famiglia e fu poi massacrata con loro ad Ekaterinburg. Fu questo il motivo che spinse successivamente l’Emiro a non accogliere supinamente i bolscevichi, come fecero i regnanti di Khiva e Kokand, ma a organizzare una resistenza armata.

Dopo aver visitato il palazzo principale passiamo ad una dependance ora trasformata in un museo degli abiti tradizionali. L’abito che più mi colpisce è il burkha. È un burkha integrale, di quegli che hanno anche una retina a coprire gli occhi. Mubashira ci spiega che i burkha avevano colori diversi a seconda della fascia d’età della donna. E le due bande che pendevano posteriormente dalla nuca all’orlo erano legate in caso di donna sposata o lasciate libere in caso di donna nubile.

Ci spostiamo nel parco fino all’edificio dell’harem. L’ultimo emiro aveva 4 mogli e circa 40 concubine. Chiacchierando scopriamo che qui al termine concubina viene assegnato più il significato che noi attribuiamo alle dame di compagnia. Non erano amanti dell’emiro, ma belle ragazze che assistevano le mogli e che venivano date in spose dall’emiro ai sudditi facoltosi o ai dignitari stranieri che se ne invaghissero.

Sull’edificio campeggia una stella di David. A Bukhara gli ebrei spesso erano commercianti ma anche gioiellieri. Agli uomini però era proibito entrare nell’harem e quindi mandavano in questo edificio le proprie mogli. Ed in questo edificio avvenivano le compravendite di preziosi. Il parco originale constava di 12 ettari contro i 5 attuali e di molti più edifici. Ma i bolscevichi ne distrussero buona parte e sono stati recuperati solo i pochi rimasti in piedi. Questo edificio in particolare ospita adesso un museo dei famosi tappeti di Bukhara.

Ultima tappa la Casa-museo del mercante Fayzulla Khodjaev. Questo era un giovane ricco mercante di spirito repubblicano. Fu mandato dal padre a studiare a Mosca e lì realizzò quanto fosse enorme il gap tra la tecnologica società europea e quella legata alle tradizioni della sua patria. Tentò con un suo movimento politico di trasformare l’Emirato in una monarchia costituzionale ma fu costretto a fuggire. Condannato a morte, rientrò a Bukhara con l’occupazione bolscevica e fu posto alla guida della Repubblica Socialista di Bukhara prima e di quella Uzbeka successivamente. Nel 1937 fu arrestato e sparì nei gulag a seguito delle purghe staliniane.

La casa della sua famiglia è stata trasformata in museo anche per mostrare come vivessero le famiglie agiate del tempo. La casa è caratterizzata da un alto aiwan ligneo rivolto a nord e da tre ambienti chiusi dal soffitto a diversa altezza. Più basso per essere abitato in inverno e non disperdere il calore. Di altezza intermedia per le mezze stagioni ed alto per l’estate.

La location è anche utilizzata per i servizi fotografici delle giovani coppie in abiti tradizionali. Anche noi possiamo indossarli e ci trasformiamo per pochi minuti in coloratissimi uzbeki 😊

A cena siamo ospiti di una famiglia locale, alla Laziz House (link qui). E visto che casa loro non è distante dal Chor Minor, andiamo a vederlo tutto illuminato. Giriamo ancora per Bukhara ma l’unico altro monumento illuminato di sera risulta essere solamente il Kalon.

13 Agosto

Oggi è la nostra giornata libera a Bukhara. Niente visite guidate. La mattina si apre comunque con un fuori programma. Come avevo già accennato, il nostro albergo è nel ghetto. Come scopriremo meglio più tardi, la popolazione in questo quartiere si assottiglia sempre più. Man mano che le case vengono vendute, sono accorpate e trasformate in alberghi.

Alcune però mantengono intatte alcune stanze con l’arredo originario. Il direttore dell’albergo ci propone di visitare le loro due stanze storiche. Accettiamo con entusiasmo e rimaniamo estasiati dai due ambienti. Sono stanze molto belle, con i tipici armadi incassati nelle pareti con le nicchie per gli oggetti ed i decori in maiolica.

Finita la colazione il direttore, su nostra richiesta, ci accompagna gentilmente a piedi al mercato, al bazaar principale di Bukhara. Ci avverte solo di mettere al sicuro i soldi. Mentre nella città vecchia non esiste borseggio (tra polizia turistica ed abitanti il controllo è ferreo), qui come in tutti i mercati il rischio, sebbene basso, esiste. Ci perdiamo quindi nei vari padiglioni del mercato, da quello del pane a quello della frutta secca, da quello delle cianfrusaglie (serve un finto Rolex con cinturino di gomma?!? 🤪) a quello dei tessuti.

Dopo questa ubriacatura di cultura locale torniamo al punto di partenza perché il rabbino ci aveva accordato un’apertura tutta per noi della sinagoga, che con i suoi 420 anni è la più antica dell’Asia centrale. Il rabbino, dopo averci mostrato una parete arredata con le foto delle persone famose venute in visita, ci spiega come la popolazione di fedeli sia calata dagli storici 23000 ebrei ai circa 200 di oggi. Calo legato per lo più all’emigrazione verso l’Occidente ed Israele. La torah, scritta su pelle di gazzella, sempre secondo la tradizione, avrebbe mille anni.

Finito questo tour, dopo pranzo, il gruppo si divide. Molte botteghe artigiane sono ospitate nei vecchi caravanserragli. Scovo per caso anche una scuola di artigianato dove appunto troviamo dei giovani apprendisti intenti ad imparare arti e mestieri.

La sera ceniamo al ristorante Chinar (link qui) e poi ne approfittiamo del fresco per un ultimo giro perché domani ci toccherà un lungo spostamento in autobus.

14 Agosto

400 km di spostamento per raggiungere la zona di Ayaz Kala. Qui ci sono i ruderi di alcune fortezze che visiteremo domani con una nuova guida. Ai piedi della fortezza più grande sorge il campo di jurte dove dormiremo. La jurta è la classica tenda dei popoli nomadi dell’Asia. Una struttura in legno, rivestita di tappeti di feltro di lana di pecora.

Passiamo il pomeriggio qui a rilassarci. Ci sono dei cammelli che si aggirano liberamente intorno al campo. Ed una famiglia di turisti kazaki di passaggio insiste per fotografarsi con noi occidentali (e comunque il papà era evidentemente brillo). Peccato per la barriera linguistica. Si vedeva che i figli avrebbero avuto piacere a parlare con noi. Ma di noi nessuno parlava il russo 🤷🏻‍♂️

Ceniamo nella jurta-ristorante – qui sopra potete vedere come la nonnina (o forse dovrei dire babushka?!?) ci prepara il pane nel forno tandoor. Dopo cena ci raggiunge un gruppo musicale che ci permette di apprezzare i canti ed i balli tipici dell’Uzbekistan.

15 Agosto

La mattina veniamo raggiunti dalla nostra ultima guida, Alisher. Visitiamo subito la Fortezza di Ayaz Kala (kala vuol dire fortezza). Questo sistema di fortezze serviva sia a dare riparo alle carovane commerciali, sia a difendere la città-oasi di Khiva dalle scorrerie dei predoni. Questa era il perno del sistema difensivo, potendo ospitare fino a 1500 persone.

Le possenti mura erano state costruite con mattoni di fango cementati tra loro con sterco di cammello. Quest’ultimo veniva utilizzato (non solo per le fortezze ma anche per le jurte) perché ha un odore repellente per insetti ed animali. Utilizzata fino al VI secolo, la fortezza si avvaleva di un sistema di torri di vedetta per monitorare l’avvicinarsi di mercanti e nemici.

Seconda tappa la Topraq Kala che era sia un tempio zoroastriano che una fortezza leggermente più piccola della Ayaz Kala – poteva ospitare fino ad 800 persone. Delle due fortezze è rimasto veramente poco e le visite si esauriscono velocemente.

Raggiungiamo finalmente Khiva e prendiamo le nostre stanze all’Hotel Old Town. Giriamo per conto nostro nella città vecchia, godendoci la luce del tramonto sui suoi monumenti dagli spalti delle mura. La città vecchia è un Patrimonio UNESCO, completamente restaurata ed ancora cinta dalle sue mura.

Ceniamo al Cafe Zarafshon (link qui) e poi ci perdiamo nei vicoli di Khiva. Di notte le pareti degli edifici sono illuminate da dei potenti led che rendono la passeggiata incantevole. Le facciate delle madrase Allakuli Khan e Kutlug-Murad Inaka sono illuminate con giochi di luce multicolori al pari della Piazza Registan di Samarcanda.

16 Agosto

Alisher oggi ci accompagna a visitare Khiva. Mentre raggiungiamo il Cancello Ovest ci racconta che secondo la leggenda la città fu fondata da Sam, figlio di Noè. Nei pressi del cancello visitiamo la Madrasa Mohammed Amin Khan, che è stata trasformata nell’Orient Star Khiva Hotel. A parte due santuari, non ci sono più madrase o moschee attive nella città vecchia, tutte trasformate in alberghi, musei o ristoranti. Alisher ci spiega che le scritte che adornano i decori della madrasa sono un misto di persiano, turco ed arabo. Curiosando scopriamo che, sebbene il luogo sembri molto suggestivo come albergo, presenta in realtà stanze piccole e prive di finestre. Quindi occhio, se pensaste di dormire qui 😉

All’esterno della madrasa si trova il famoso Minareto Kalta Minor. La sua costruzione iniziò nel 1852 su ordine del khan Mohammed Amin e doveva diventare il minareto più alto dell’Oriente, raggiungendo i 70-80 metri di altezza. Ma nel 1855 la costruzione fu interrotta a seguito della morte in battaglia del khan.

Abbiamo poi visitato la Kuhna Ark, la Cittadella. Prima il museo delle prigioni, con manichini a rappresentare le detenzioni e rappresentazioni grafiche delle varie pene sancite dalla legge (si va dall’impalamento ad altri supplizi medievali). Visitiamo poi la splendida sala del trono (splendido il trono, sebbene sia una copia dato che l’originale fu portato a San Pietroburgo come bottino di guerra). Dopodiché saliamo sulla terrazza panoramica per godere della vista sulla città.

Andiamo poi alla Madrasa Qozi Kalon, che ospita il Museo delle Arti Musicali. Lì ci sediamo in una stanza dove una ragazza ci mostra su uno schermo alcuni video di danze tradizionali, ambientate nelle strade di Khiva 😬 Un’esperienza assolutamente dimenticabile…

Visitiamo successivamente il Mausoleo di Pahlavan Mahmud, che ospita la tomba di Allah Quli Muhammad Bahdirkhan, un venerassimo santo sufi. C’è una processione continua di fedeli che si abbeverano al pozzo all’esterno prima di entrare nel santuario. Restiamo a lungo sia a fotografare – e a farci fotografare – dai pellegrini, sia ad ascoltare all’interno i canti religiosi che alcuni di loro innalzano.

Passiamo poi a visitare la Moschea Juma, con le sue 218 colonne di legno che sorreggono il tetto le cui basi intagliate risalgono al X-XI secolo.

Tappa finale il Palazzo Tosh-hovli. Residenza del Khan e del suo harem, presenta una corte riccamente decorata con maioliche con decorazioni floreali.

Il pomeriggio siamo liberi e ci disperdiamo nella città. Per il tramonto siamo di nuovo sulla terrazza della Kuhna Ark, anche questa meta di varie coppie di sposini intente a scattare servizi fotografici in abiti tradizionali.

17 Agosto

La mattina abbiamo qualche ora libera e ne approfittiamo per rientrare nella Kunya Ark (il biglietto che da accesso ai musei è valido per due giorni). Qui visitiamo il museo della zecca ed il decoratissimo (sempre in maioliche azzurre) aiwan della Moschea d’Estate.

Poi transfer fino all’aeroporto di Urgengh per tonare a Tashkent. Prendiamo alloggio sempre all’Orient Inn. A piedi raggiungiamo la fermata della metropolitana Kosmonavtlar.

Kosmonavtlar è dedicata ai cosmonauti dell’Unione Sovietica. I medaglioni in ceramica blu alle pareti raffigurano alcuni dei più grandi pionieri del programma spaziale sovietico, tra cui Valentina Tereshkova, la prima donna nello spazio, e il primo cosmonauta del mondo: Yuri Gagarin. Le pareti in ceramica dai colori vivaci sfumano dal blu al nero per imitare l’atmosfera terrestre, il soffitto rappresenta la Via Lattea e le colonne verde brillante conferiscono a questa stazione della metropolitana un’atmosfera funky.

Per tornare in albergo zigzaghiamo lungo le strade per immergerci – ed orripilare – nei quartieri di epoca sovietica, dove il brutalismo architettonico la fa da padrone 😫 Tornati in albergo, ceniamo al ristorante Al Aziz e poi a nanna chè domani abbiamo gli aerei per l’Italia molto presto la mattina 🛫